La grande biodiversità alla quale oggi siamo abituati e che sovente è oggetto di approfondimenti e tavole rotonde sui media, nelle università e da parte del mondo scientifico in quanto bene prezioso da tutelare e da conservare, è il risultato di un percorso a ritroso che affonda le sue radici persino nel Paleolitico. In quel tempo così remoto, l’uomo si nutriva solo ed esclusivamente di ciò che madre natura aveva da offrire: frutti, erbe e tuberi spontanei erano la dieta quotidiana dei nostri antenati. Solo nel Neolitico l’uomo si sarebbe scoperto in grado di coltivare, cacciare e raccogliere. Il passo successivo sarebbe stato quello di apprendere le tecniche di selezione e di addomesticazione di ciò che madre natura aveva da offrire. Non a caso, molti cultivar di pregio dai quali oggi attingiamo i migliori olii di oliva o le più blasonate etichette vinicole, sono proprio il frutto di questa lenta ma inesorabile evoluzione dell’essere umano. Un percorso che l’ha portato ad instaurare un rapporto virtuoso e positivo con madre natura, almeno sino a quando la smodata industrializzazione e le leggi del profitto non hanno messo a repentaglio un equilibrio che, com’è facile intuire, si basa su piccoli passi fatti nel corso di lunghi secoli. In questo panorama di amore, rispetto e grande interesse verso ciò che madre natura spontaneamente offriva ed ancora oggi offre all’essere umano che ha la fortuna di abitare madre terra, le piante spontanee rivestono un ruolo di vere e proprie protagoniste. E, ancora oggi, l’uomo non cessa di raccoglierle e gustarle, come parte integrante di una dieta mediterranea capace di apportare innumerevoli benefici sul fronte della salute. Un’abilità, quella della raccolta delle erbe spontanee, che si tramanda di famiglia in famiglia. E’ ancora possibile, in Salento così come in molte altre zone d’Italia, imbattersi in nonni e mamme accompagnati dai bambini, intenti nella raccolta di questa o quell’erba spontanea. Gesti semplici che rappresentano una consuetudine, e che pur tuttavia lasciano intravedere la precisa volontà di consegnare nelle mani dei posteri un’eredità considerata tutt’ora quanto mai preziosa. E allora, andiamo alla scoperta di alcune delle più gustose e benefiche erbe spontanee del Salento.
Uso sostenibile della ricchezza botanica del Salento: quando le erbe spontanee divengono fonte di nutrimento e di salute
Ma quali sono le erbe spontanee più comuni del Salento? Eccole elencate
Dente di leone o tarassaco tra le Erbe spontanee
Chiamato anche zangune, abbonda nei cambi da marzo sino a maggio. Si presenta con foglie verde chiaro ricoperte da una fitta peluria. Sono disposte a rosetta, ben aderenti al suolo. Si trova in abbondanza nel Salento in quanto è una pianta che vive bene in terreni moderatamente aridi dove in le temperature si mantengono miti. E’, peraltro, una specie perenne, dunque se individuate un campo dove gli “zanguni” abbondano, potrete certamente farvi ritorno anche l’anno a venire. Il tarassaco era considerato, nel Rinascimento, un’erba dalle proprietà magiche. I bambini lo trovano divertente in quanto il fiore diviene un soffione. In tempi di povertà, le radici del soffione erano tostate e usate come caffè, per dar vita ad una bevanda dalle proprietà diuretiche e digestive. Le foglie sono lievemente amare e, una volta cotte, rappresentano un ottimo lassativo e digestivo. E’ una pianta ricca di magnesio, fosforo e calcio.
Finocchio selvatico, erbe spontanee
Si trova in tutta l’area del Mediterraneo, piuttosto resistente. Era molto amato dagli antichi Romani, che lo somministravano sotto forma di infusi e bevande ai gladiatori, nella convinzione che potesse fornire forza e vigore. Altri ritenevano che avesse effetti afrodisiaci. Nella tradizione contadina le cime di finocchio si usavano per decorare il collo dei contenitori di argilla contenenti acqua o vino. Oggi le cimette, chiamate comunemente caroselle, si mettono sott’aceto e si usano per dare sprint e sapore e misticanze o a sformati al forno, come la famosa pitta di patate. Un’altra varietà di finocchio selvatico è il finocchio marino che, come il nome stesso suggerisce, cresce sulle coste, senza temere salsedine, vento, aridità e persino acqua di mare. Anche questo si mette sott’aceto.
Cicoria selvatica
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Chiamata anche cicuredda o cicoria “cresta“, la cicoria selvatica è una pianta erbacea di tipo perenne. Le sue foglie possono raggiungere anche lunghezze notevoli. Si trova, raccoglie e consuma durante tutta la stagione invernale. Sembra che gli antichi Egizi la consumassero d’abitudine già 4mila anni prima di Cristo, sia per scopo nutritivo, sia per scopo medicamentoso e fitoterapico. Si riteneva inoltre che la cicoria selvatica potesse combattere l’invecchiamento cellulare e le macchie scure, ma anche l’Herpes Zooster, con particolare riferimento al Fuoco di S. Antonio. In Puglia ed in Salento la cicoria selvatica è molto consumata, solitamente cotta, spesso con l’aggiunta di cotiche di maiale. Una vera prelibatezza della cucina contadina.
Papavero o paparina
Noto anche con il nome di rosolaccio o paparina, il papavero è un’erba spontanea che si raccoglie sul finire dell’inverno. Si tratta delle foglie dei fiori del papavero. Non farete fatica ad individuare i campi di papavero, per lo splendido colore rosso intenso dei suoi fiori. Non si tratta di una pianta oppiacea come sarebbe naturale pensare. Si consuma la rosetta basale della pianta quando non è in fioritura, solitamente saltata in padella con l’aggiunta di cipollotto e una generosa manciata di olive celline. I petali sono buoni per dar vita a decotti aventi proprietà espettorante e calmante. Da assaggiare le nostre paparine in vaso che puoi acquistare qui:
Erba porcellana
Nota anche con il nome di brucacchia, si tratta della varietà commestibile della portulaca. Secondo gli storici, questa pianta si gustava già nel 2mila a.C in Mesopotamia, e successivamente anche in Grecia e presso i Romani. La si gustava per il suo sapore gradevole così come per uso depurativo. In Salento si riteneva che la brucacchia potesse difendere le abitazioni dagli spiriti maligni. Si usava infatti metterla sotto i letti o vicino alle porte, un pò come si faceva con le teste apotropaiche. E’ ottima a crudo, ma si usa anche cotta, per dar vita a frittate o saltata assieme alle patate.
Asparaggina volgare e asparaggina comune
Nota anche con il nome di sprusciuni, l’asparagina è una pianta nota all’uomo sin dal secolo XVI. In Salento è la protagonista della cosiddetta manescia, ovvero una misticanza di verdure cotte, che include, di solito, tarassaco (zanguni), ma anche borragine e finocchio selvatico. La varietà volgare si distingue da quella comune per il fatto che è meno ispida e più tenera al palato.
Borragine
Nota anche con i nomi dialettali di sucaméle, burrascina o burrano, la borragine officinale è una pianta facile da individuare per i suoi bellissimi fiori a calice di colore blu violetto. In cucina trovano impiego le foglie più piccoline, che spesso vengono fritte in pastella. Le foglie sono ricoperte di una fitta peluria, che si perde in cottura. Se consumata cruda, la borraginee è tossica per il fegato.
Camomilla
Abbonda allo stato selvatico lungo i sentieri di campagna. Si presenta sotto forma di piccole margheritine che, raccolte, hanno il tipico profumo della camomilla. Si usa per preparare decotti ed infusi calmanti e rilassanti. In alcune località del Salento la camomilla viene portata in chiesa per essere benedetta, al fine di enfatizzarne le capacità medicamentose. Le infiorescenze si usavano anche, in passato, per tingere i tessuti.
Cappero
Abbonda anche nei luoghi più aridi come i muretti a secco che spesso capita di incontrare in Salento. Il cappero è una pianta infestante difficile da debellare ma molto bella, coreografica, e naturalmente edibile. La si trova, in generale, in tutti i paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. Gli antichi Romani usavano i capperi come rimedio contro i calcoli renali. In Spagna vi sono ancora oggi immensi cappereti, piantati dagli Arabi durante il periodo della Conquista.
Cardi
Ve ne sono diverse tipologie, e tutte erano molto usate già in epoca romana. Alcuni le ritenevano “erbe del diavolo”, altri ancora “erbe di Cristo”, sempre per la presenza di numerose spine. Tutte le specie di cardi si raccolgono quando sono tenere e poi si lessano. Si consumano dunque lesse, condite con olio e limone oppure olio e aceto, o ancora lesse e poi saltate in padella con aglio o cipolla. Infine, c’è chi gusta i cardi gratinati. La varietà più nota è forse il cardo mariano, famoso per le sue proprietà depurative del fegato, ma citiamo anche lo zafferanone selvatico, la carlina raggio d’oro, il cardo saettone, lo scolimo, il cardo argiroa.